News: GLOBALIZZAZIONE E WELFARE
(Categoria: MONDO)
Inviato da ferocibus70
martedì 09 agosto 2011 - 20:05:50





wto_fermiamo.jpgIl secolo scorso è stato caratterizzato da due fenomeni principali. Il primo riguarda l'assunzione di responsabilità da parte della maggior parte delle nazioni industrializzate di fornire un sufficiente livello di benessere ai propri cittadini. In Europa quest'idea ha rappresentato il propellente per quello che è universalmente definito come Stato del benessere (Welfare).



Questo assetto istituzionale, in vigore dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni settanta, fu in grado di mantenere la coesione sociale – anche se in maniera non esaustiva e frammentata – grazie a una regolazione politica ispirata dall'idea strategica di un contratto sociale tra i soggetti primari della produzione moderna, nella fattispecie lavoro e capitale. In questo contesto, "la funzione del lavoro, pienamente riconosciuta nel suo carattere esplicitamente sociale, come fondamento della cittadinanza, era incorporata nella sfera pubblica attraverso un sistema articolato di garanzie normative [...] e un complesso d'istituti pubblici di tutela dei diritti sociali." (Revelli, 1997) Anche se i sistemi di protezione sociale europei differiscono in maniera sostanziale tra loro, il finanziamento dell'educazione e della sanità pubblica, il sistema pensionistico, misure di sostegno in caso di disoccupazione, statuti legali in difesa dei diritti dei lavoratori, aiuti per attività produttive socialmente utili e un numero di servizi sociali e forme di supporto per i cittadini più svantaggiati sono tratti comuni a ogni sistema di Welfare europeo. Il secondo fenomeno, molto più recente, riguarda la globalizzazione dei mercati. C'è un sostanziale consenso tra gli osservatori economici nell'intendere il processo di globalizzazione di matrice neoliberale come l'interconnessione delle singole economie nazionali in un unico mercato mondiale. Grazie a un sapere tecnologico oggigiorno trasferibile con estrema velocità, questo processo ha comportato una crescita esponenziale del commercio internazionale, dell'integrazione dei mercati finanziari, del flusso degli investimenti esteri e imposto una sempre maggior flessibilità del mercato del lavoro. Agli inizi di quest'ultima grande trasfigurazione capitalistica, per conquistarne il consenso, venne assicurato ai cittadini europei che un modello di sviluppo economico altamente tecnologizzato, flessibile e globalizzato avrebbe portato maggiore libertà e benessere per tutti. Che le cose non siano andate proprio come era stato pronosticato lo dimostra la storia.


ECONOMIA, SOCIETÀ, SAPERE La rivoluzione informatica e tecnologica che ha investito le società europee è andata ben oltre il settore high-tech, scuotendo le fondamenta del sistema industriale e della struttura occupazionale fordista, ridefinendo le regole imprenditoriali e della competizione. Per quanto il sapere – e la sua diffusione – siano stati tra i motori principali dello sviluppo economico occidentale, oggi le industrie ottengono i loro vantaggi competitivi grazie all'abilità di utilizzare, processare e condividere potentissime tecnologie comunicative e informatiche a una velocità e su scala mai prima d'ora sperimentata. Il sapere, si potrebbe dire, è entrato a pieno diritto a far parte dei fattori della produzione unitamente a terra, lavoro e capitale. A partire dal Summit di Lisbona tenutosi nel 2000, la Commissione Europea ha inaugurato un modello di sviluppo socio-economico denominato Economia e Società della Conoscenza. Nelle intenzioni dei suoi sostenitori, esso rappresenta il contenitore all'interno del quale è possibile sincronizzare gli sforzi dell'UE nel rispondere alle sfide poste dalla nuova economia mantenendo il carattere inclusivo del Modello Sociale Europeo. L'obiettivo principale della Strategia di Lisbona per la prima decade del XXI secolo è quello di diventare 'la più dinamica e competitiva economia della conoscenza nel mondo, capace di combinare una crescita economica sostenibile con migliori posti di lavoro, coesione sociale e rispetto dell'ambiente'. A dispetto di questa altisonante retorica, è sufficiente consultare i dati più recenti forniti dalle principali organizzazioni internazionali (EuroSat, ILO, OECD, solo per citare quelle di maggior influenza), per comprendere che la promessa di una qualità migliore di vita per i cittadini europei non si è realizzata, dimostrando quanto sia lontano dalla realtà l'assunto che crescita economica e competitività siano in grado di generare benessere e stabilità sociale. Al contrario, nonostante giustizia sociale e sicurezza rappresentino la più importante garanzia che deve essere offerta alla popolazione europea in cambio del suo supporto a un'Europa economicamente competitiva, politiche economiche orientate a privilegiare la flessibilità del mercato del lavoro, la deregolamentazione e la privatizzazione del Welfare lasciano indietro vasti settori della società che lottano per non soccombere al dinamismo delle contemporanee società della conoscenza – in particolare, lavoratori precari, migranti, disabili, donne.


GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERALE Secondo l'ideologia neoliberale, i bisogni e le aspettative delle singole persone sono meglio soddisfatte all'interno di un meccanismo di mercato ben funzionante. Secondo i suoi sostenitori, il meccanismo di mercato sarebbe in grado di garantire un'incessante crescita economica i cui benefici ricadrebbero inevitabilmente sugli strati più deboli della società (il molto citato effetto trickle-down). Malauguratamente, quando si esamina la distribuzione della ricchezza e del reddito, i proclami entusiasti circa l'abilità del mercato di ridistribuire il prodotto sociale si fanno particolarmente disincantati. Gli schemi distributivi della globalizzazione neoliberale occorsi negli ultimi tre decenni dimostrano come, piuttosto che ridursi, il divario tra i poveri e i ricchi del mondo si è allargato. Dal 1980 si è inoltre evidenziato che l'ineguaglianza è diventata una caratteristica permanente non solo nei paesi sottosviluppati, ma anche in quelli le cui economie sono tra le più avanzate. La serietà della situazione europea emerge dall'esame della posizione relativa dei gruppi all'apice e alla base della piramide redistributiva, illustrata dalla così detta ratio S80/S20. Come sottolinea la ricercatrice di Eurosat Ann-Cathrine Guio, nel 2003 "il 20 per cento più ricco della popolazione dispone di un reddito 4,6 volte maggiore di quello di cui dispone il 20 per cento più povero". Questo significa che nel 2003 circa 73 milioni di cittadini europei, pari al 16 per cento della popolazione dell'Europa a 17, erano a rischio di povertà. Con l'allargamento dell'Unione, la situazione è andata peggiorando. Questa iniqua distribuzione del reddito può essere in larga misura ricondotta a un sempre più ridotto accesso al mercato del lavoro per larghe fasce della popolazione. Oggi il messaggio lanciato a milioni di lavoratori è: per un mercato del lavoro altamente tecnologizzato, lavoratori che abbiano qualifiche medio-basse sono diventati semplicemente ridondanti. Molti analisti del mercato del lavoro hanno prodotto una vasta letteratura che sottolinea come il fenomeno della disoccupazione sia diventato uno strumento quotidiano per ottenere la prosperità economica. Non è più l'azienda in crisi quella che licenzia: piuttosto, proprio quella la cui performance è economicamente positiva. In un contesto in cui gli agenti economici cercano di massimizzare la propria competitività, la disoccupazione non può più essere vista come l'effetto di una situazione di crisi, bensì come una strategia finalizzata a incrementare la competitività nel mercato globale. Sebbene si possa considerare errata la tesi sostenuta a più riprese della fine del lavoro, è pur vero che l'introduzione di tecnologie labour-saving e macchinari elettronici sta riducendo a una velocità impressionante le opportunità di coloro che riescono a rimanere all'interno del mercato del lavoro: per la maggior parte dei lavoratori con qualifiche medio-basse, l'idea di un lavoro a tempo pieno e di durata indeterminata sta diventando un'opzione sempre meno probabile. Come nota il Rapporto sullo Stato sociale 2008, presentato nel luglio di quest'anno dal Criss, gli orientamenti europei che tendono a promuovere forme più o meno sofisticate di flexsicurity (modello che cerca di compensare l'accrescimento dei rischi per i lavoratori con ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro) si sono tradotti in un aumento della precarietà. Quest'ultima obbliga i lavoratori ad accettare salari così bassi da non riuscire a superare la soglia di povertà (relativa) e a lavorare per un numero di ore inferiore alle proprie necessità (è il caso, ad esempio, di chi è costretto a lavorare part-time e a svolgere mansioni che sminuiscono le sue capacità fisiche o intellettuali). Quali riforme dello Stato sociale dovrebbero essere introdotte nell'agenda politica dei nostri governanti per rendere la vita di ogni persona degna di essere vissuta? Di fronte all'insicurezza e all'incertezza venutesi a creare in questa fase di transizione dal modello fordista a una società della conoscenza basata su un paradigma di accumulazione flessibile, i neoliberali propugnano un'idea di Welfare ridotto al minimo. A seguito dello smantellamento del sistema macroeconomico keynesiano, le politiche sociali sono state inesorabilmente subordinate alle necessità di un mercato del lavoro sempre più flessibile e della competitività globale. Nata dall'idea keynesiana che il mercato non potesse essere il solo meccanismo regolatorio della società, la missione del sistema di Welfare era quella di redistribuire in maniera più equa possibile i frutti della crescita economica. Fino agli anni ottanta, l'attività del governo era caratterizzata dall'estensione di un sistema di Welfare che comprendeva pensioni, agevolazioni per la casa, salute, educazione, ammortizzatori in caso di disoccupazione, ecc. un ventaglio di politiche finanziate dalla tassazione generale. Aiuti economici e servizi sociali per le fasce più deboli erano considerati parte integrante del pacchetto di politiche sociali atto a mantenere un sufficiente livello di coesione sociale. Dalla metà degli anni settanta, il clima politico subì una trasformazione drammatica. Il principio ispiratore del formidabile attacco neoliberale al sistema di protezione sociale è che lo Stato del benessere, pensato e sviluppato nell'immediato dopoguerra, quando il trend economico era in aumento costante e il tasso di disoccupazione estremamente basso, è diventato troppo oneroso e quindi non più competitivo. Oltre alla critica dell'insostenibilità economica dello Stato del benessere keynesiano, un altro argomento utilizzato a giustificazione dello smantellamento del modello di Welfare europeo deriva direttamente dalle tesi avanzate dagli studiosi di "public choice". Questi teorici concepiscono i servizi pubblici come una parte integrante del mercato. In primo luogo, le loro analisi cercano di provare che la burocrazia statale è il peggiore dei mali e il pubblico è incontestabilmente meno efficiente del privato. Questa visione negativa dello Stato è stata assunta dai governanti europei senza esitazione, diffondendo l'impressione che lo Stato sia un'istituzione inefficiente, che i suoi funzionari agiscano sempre per il proprio interesse particolare e che l'intervento dello Stato debba limitarsi a politiche che favoriscano le transazioni di mercato (ad esempio, investimenti in educazione), un clima competitivo per lo svolgimento dell'attività economica e un assetto macroeconomico stabile. Sta emergendo ciò che il sociologo inglese Bob Jessop, nell'intervista qui acclusa, descrive come "un nuovo regime che può essere denominato sistema di Workfare Shumpeteriano. I suoi obiettivi economici e sociali [...] possono essere sintetizzati come il tentativo di promuovere prodotti, processi organizzativi e innovazioni di mercato finalizzate al rafforzamento strutturale della competizione in un'economia aperta principalmente attraverso l'intervento sul versante dell'offerta, subordinando le politiche sociali alle necessità di un mercato del lavoro sempre più flessibile e della competitività strutturale". A partire dalla fine degli anni ottanta, notando l'aumento del numero dei fruitori di benefici, in Europa è stato introdotto un principio secondo il quale i disoccupati devono accettare qualsiasi tipo di lavoro per poter usufruire pienamente delle misure di protezione sociale. In caso contrario, l'accesso ai benefici va via via riducendosi, garantendo soltanto quelli di primaria necessità – che di solito sono di scarsa qualità. Inoltre, i beneficiari delle misure di protezione sociale sono soggetti a un vincolo temporale. Il modello neoliberista di workfare è inoltre compatibile (prova ne è la sua introduzione negli ultimi due decenni) con un varietà di politiche che includono la cessione di industrie nazionalizzate e il passaggio ai privati tramite contratti ad hoc della gestione del Welfare. Oltre a sostituire lo Stato nella gestione del Welfare, un altro aspetto degno di nota rispetto all'intrusione della logica del mercato nella gestione del benessere sociale è la privatizzazione del sistema pensionistico. Il quadro fin qui delineato ci suggerisce che l'Europa è un malato piuttosto grave. A dispetto dell'euforia neoliberale, in molti fanno notare come le riforme da essi promosse allontanino i sistemi di protezione sociale europei da quell'idea di bene comune intesa come il buon funzionamento della società, che dovrebbe costituirne la sponda di approdo. Non solo una razionalità economica basata su competitività, profitto e accumulazione si è dimostrata in palese conflitto con obiettivi quali la coesione sociale, la solidarietà, la salvaguardia ambientale, ma soprattutto ha ridotto strati sempre più vasti della cittadinanza europea in una moltitudine senza alcun potere, o quasi. Per molto tempo i 'dottori della società', siano essi economisti o politici, si sono concentrati sui sintomi piuttosto che sulle cause del malessere sociale che si insinua sempre più profondamente nella società europea. Le riforme socio-economiche introdotte dai neoliberali, lungi dall'essere ispirate dall'intenzione di andare alla radice dei mali che determinano l'insicurezza, la solitudine, l'esclusione, la povertà in cui ognuno di noi si imbatte quotidianamente per le strade delle nostre città, rafforzano le cause del malessere generale. Tutto ciò è intollerabile. I sintomi non sono altro che il segnale che qualcosa non funziona correttamente nel corpo del paziente. Per guarire pienamente, non ci si può limitare ad alleviare i sintomi senza andare alla radice di ciò che li provoca. In caso di mal di testa, non basta prendere un'aspirina, soprattutto se si ha un tumore che preme sulla massa cranica. L'aspirina può lenire il dolore, dando un sollievo di breve durata, ma alla lunga non ci sarà scampo. Per recuperare la salute occorre rimuovere il male alla radice, non esiste altra soluzione. Sulla base di questa riflessione, la tesi che emerge con forza dalle interviste raccolte in questo volume è che per arginare la dilagante vittoria dell'ideologia neoliberale sia necessario trovare il coraggio e la capacità di proporre una forma di società radicalmente diversa da quella che vede il mercato come unica stella polare da seguire nel complesso passaggio da un paradigma rigido ad uno flessibile. Trovare risposte a domande come "Che cos'è una società giusta? E ancora possibile ragionare su come configurare un sistema di cooperazione sociale inclusivo e rispettoso dei bisogni delle persone? Quali politiche strutturali potrebbero facilitare il ritorno di una robusta società civile, laica e impegnata, capace di giocare un ruolo primario nei processi economici?" diventa un imperativo imprescindibile. Partendo dall'idea che per avviare un confronto di tale complessità fosse necessario un approccio interdisciplinare, queste e altre domande sono state rivolte a economisti, sociologi, filosofi, ecologisti con i quali chi scrive ha avuto l'opportunità di collaborare, o incontrare durante gli anni trascorsi all'estero. La speranza è che le loro risposte possano offrire spunti di riflessione concreti a tutti coloro che sono attivamente impegnati a favore di un progetto socialista di rinascita della società che riconosca nell'uomo, nella sua emancipazione e piena realizzazione il suo fine ultimo.
Tratto da I Confini del welfare di cosma orsi (Vedi)







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