News: BERLUSCONI ULTIMO ATTO di e. deaglio
(Categoria: ITALIA)
Inviato da ferocibus70
lunedì 25 maggio 2015 - 16:25:24


 

di E.Deaglio Berlusconi ultimo atto [da il Venerdì di Repubblica - 23.05.2015]

berlkusconi_malore.jpgDieci giorni fa, in una sofferta intervista ad Anais Ginori (Repubblica del 12 maggio), il disegnatore Luz — uno dei pochi sopravvissuti alla strage di Charlie Hebdo del 7 gennaio scorso — raccontava quanto gli fosse difficile ormai ridere e cercare di far ridere. Lasciava cadere anche questo piccolo esempio: «Mi è venuto in mente di fare un disegno su Berlusconi dopo che è inciampato. Ma mi sono accorto che pure lui annoia».
Ha ragione, e dire che il potente che prende una culata per terra è sempre stato un classico della risata. Berlusconi non riesce più a suscitare invidia, ammirazione, odio o disprezzo. Noia, piuttosto. La platea sta guardando l'orologio: ahò, ma quanto deve durare ancora 'sto strazio? Il copione è terribilmente lungo, troppi tempi morti, e le ultime trouvailles — il cagnolino, la fidanzata giovane, il partito repubblicano — sono stati così così. La brutta sensazione è che lì, ormai, manchino sia il panem che i circenses. E quindi: venderà le sue aziende, venderà il Milan, pagherà le ragazze e gli avvocati e un gruppo di parlamentari che lo difendano, saluterà il partito (non mollate, eh!), ma non contate più sui miei soldi. E tutti sanno che aveva pagato tutti, lui.

 




 
Il come back, il Berlusconi Quater, la Riscossa, gli è vivamente sconsigliato da tutti. Improvvisamente, si scopre che tutto costa, il calcio soprattutto. Oh, San Siro però. Quanti bei ricordi. E ora l'affronto di una curva in sciopero per il disastro della squadra, con gli irriducibili a comporre un quadro vivente di cinque lettere: «Basta». E dire che nel 1986 proprio il football lo aveva fatto diventare una star. Silvio scese dall'elicottero in mezzo all'Arena di Milano, nel vento, le pale fruscianti e la Cavalcata delle Valchirie sparata a palla, a fianco, addirittura, di Cesare Cadeo. Lì venne annunciato il nuovo ciclo vincente del Milan di Arrigo Sacchi, di Franco Baresi e delle stelle olandesi. Sarà stato il calcio a portargli sfiga?
Il calcio è indispensabile per un politico, ma può anche essere terribile. L'elettore lo puoi buggerare, il tifoso si ribella.
Chissà se qualcuno ha mai raccontato a Berlusconi la storia di Achille Lauro. Dunque, c'era una volta, nella Napoli del Dopoguerra, un personaggio molto pittoresco, proprietario della più grande flotta navale che l'Italia abbia mai avuto, una specie di Fiat del meridione. Già personaggio di spicco del fascismo, Achille Lauro — detto O' Comandante — divenne un decisivo uomo politico italiano, simbolo del partito monarchico e poi del Msi. Sindaco di Napoli (vi avviò la spaventosa speculazione edilizia), editore di giornali, cavaliere del lavoro, senatore, doveva la sua popolarità al fatto di essere presidente della squadra di calcio e alla leggenda, da lui alimentata tra il popolino, delle «spropositate» dimensioni del pene (tene 'na uallera tanta). Con i «colpi di mercato» che facevano impazzire i tifosi del Vomero e con il voto di scambio (regalava ai poveri una scarpa prima del voto e la seconda solo a risultati ottenuti), arrivò a prendere, nelle politiche del 1953, 680 mila preferenze alla Camera. All'apice del successo, O' Comandante consegnò al figlio Gioacchino un posto in Parlamento e la presidenza del Napoli Calcio. Gioacchino però non era molto intelligente. Se i comizi del padre erano ricordati come opere d'arte oratoria, quelli di Gioacchino si limitavano ad annunciare alle folle: «Ha ditte papà che v'accatta a Pelè». Gioacchino, che dissipò in sei mesi 7 miliardi di lire di allora, venne fatto interdire dal padre, ma mantenne il posto di deputato. Morì nel 1970. L'impero finanziario Lauro crollò negli anni seguenti. Rispetto alla meteora Berlusconi, nella storia laurina mancano la televisione e la mafia, ma sesso, calcio e strategia politica non sono poi così tanto cambiati.
È vero, O' Comandante parlava in piazza, mentre Berlusconi annunciò la nascita di un partito — Forza Italia — con un Vhs dal salotto della sua villa; e di un secondo partito, il Popolo delle Libertà, dal «predellino» di un'auto in piazza San Babila a Milano. Ma questo senso della uallera un po' persisteva. Per esempio, un giorno — Berlusconi era presidente del Consiglio al massimo della sua potenza — arrivarono a omaggiarlo nella sua residenza privato-pubblica di palazzo Grazioli gli amministratori della Campania e lui tenne una lezione politica nel parlamentino-anfiteatro in legno fatto costruire per prendere in giro il concetto di democrazia. Discorso che terminò con una delle più schifose barzellette mai concepite (quella della «mela»), roba da pre-adolescenti disturbati, accolta con un tripudio di applausi: l'inconscio evergreen della uallera del comandante. Era il 2011, appena ieri.
Erano i tempi in cui palazzo Grazioli era il centro dell'impero, dove circolavano — tutti insieme — i ministri dell'Interno, i capi dei servizi, le guardie del corpo, le ragazzine di Bari vecchia, capi di Stato, spie e faccendieri, e all'ingresso un padre di famiglia, tale Cesare Romano di Napoli, si dava fuoco, per protestare perché sua figlia, una soubrette di nome Emanuela, non era stata messa in lista. Palazzo Grazioli è oggi una specie di istituzione psichiatrica, con la pet therapy affidata al cane Dudù, la badante saggia e l'infermiera giovane, le congiurette dei proconsoli, gli avvocati che portano carte da firmare. Non è Salò, non è Pompei, non è nemmeno House of Cards. È solo un vento triste quello che accompagna l'uscita di scena di Silvio Berlusconi.
Nel 2001, la macchina da guerra di Forza Italia portò in tutte le case un rotocalco geniale, Una storia italiana, opuscolo elettorale di glorificazione di Silvio, dipinto come un Caro Leader coreano a suo agio nell'industria, nello sport, nello spettacolo, e tra i fiori. La Mondadori stampò seimila tonnellate di carta. I sondaggisti stimarono che l'operazione valeva, da sola, il 3 per cento. Quell'opuscolo ha oggi il sapore dell'archeologia.
Berlusconi è un ex presidente del consiglio, un ex senatore, un ex cavaliere, formalmente un pregiudicato condannato per frode fiscale, in attesa di altri processi, capo di un partito in dissesto, voglioso di correre verso la soglia di sbarramento, di un impero economico che accumula debiti. E non parliamo della moglie: cattiva, ha voluto tutto. E non parliamo dei magistrati.
I figli, poveretti, non hanno la stoffa. Non sono portati, non ci sarà una dinastia berlusconiana. Al massimo Barbara, la nuova Titti Savoia.
Così sta andando la mesta uscita di scena. Senza insegnamenti, senza una morale. Né lui, né nessun altro sembra avere troppa voglia di ricordare com'è che cominciò tutta questa pazzia.
Verso la fine del secolo scorso, l'Italia era il Paese più simpatico del Pianeta. Bella gente, intelligente, cordiale. Con una grande cultura alle spalle, un gran gusto, sexy, un buon cinema, la Lamborghini e il parmigiano. Paese dalla vita vivace; abbastanza ricco, con le sue utilitarie, il Vaticano, la Democrazia cristiana, un teatrale e innocuo partito comunista, la mamma, la moda, la pizza e la mafia. Nel calcio, vigevano il catenaccio e la teoria della «squadra femmina». Matteo Renzi era un giovane arbitro con la passione della politica, consigliere comunale della Dc di Rignano sull'Arno, vicino a Firenze.
C'era però anche un cuore di tenebra, fatto di delitti, corruzione, terrorismo, crimine organizzato, associazioni segrete, che a un certo punto prese il sopravvento e su cui alcuni magistrati condussero inchieste clamorose, tra omicidi, suicidi e arresti eccellenti, auto-bombe e autostrade che saltavano in aria.
In quel particolare momento storico, in cui lo Stato non valeva molto, venne concepita una grande idea: Trasformare un'azienda in un partito politico. E prendere il potere. L'azienda si chiamava Fininvest — un impero economico molto oscuro e sempre sull'orlo della banca-rotta — e si offrì come sostituto dello Stato. Berlusconi elesse al Parlamento i suoi rappresentanti di commercio, fece ministro dell'Economia il suo fiscalista (Tremonti
nota di admin) e ministro della Difesa il suo principale incaricato agli affari(Previti nota di admin).
A capo del partito, che fu chiamato Forza Italia, era un tale che vent'anni dopo venne messo in galera per mafia (Dell' Utri
nota di admin
). Si scelse due alleati: a nord, il bizzoso capo dei Celti; a sud, i truci eredi di Salò. Ci fu un certo genio, allora, sull'asse Arcore-Palermo. E si giocò pesante. C'era però anche un polso del Paese, una sicurezza sociologica. Se vuoi vincere le elezioni, devi spaventare gli elettori. Devi dire che arrivano i comunisti, che metteranno le tasse, ti guarderanno nel conto in banca, ti multeranno per la stanza abusiva. E poi, come amava aggiungere: «i comunisti non si lavano». In più piaceva alle donne. Tutta questa maionese, in Italia è durata vent'anni. È stata chiamata «populismo mediatico», «fascismo light», «peronismo», «berlusconismo»... Ma Berlusconi, dai suoi esegeti, è stato anche salutato come «un vero liberale», l'erede di don Sturzo e di Luigi Einaudi, il nostro Churchill, il difensore della sovranità italiana, il «martire delle toghe rosse», la vittima di un complotto comunista, il — sì, sì, è lui — il famoso Principe vagheggiato dal Machiavelli. Ma è anche vero che Silvio Berlusconi, sia nella sua ascesa che nella sua caduta, non è mai riuscito a essere epocale, a togliersi di dosso una certa patina di cialtroneria.
Nel film di Nanni Moretti, quando viene condannato succede una rivoluzione. In realtà, quando è stato condannato e le sue truppe hanno marciato sul tribunale di Milano, non hanno fatto paura a nessuno. E quando ha chiesto di essere almeno considerato un «padre della patria», il protagonista di una «guerra civile durata vent'anni», nessuno l'ha riconosciuto come tale.
Ora si può finalmente cominciare a parlare di lui con distacco. Non aveva cultura politica, non conosceva i fondamentali della Costituzione, della democrazia parlamentare. Sapeva alcune verità fondamentali, però. Che per vincere le elezioni, bisogna spendere; che deputati e senatori, e persino interi partiti possono essere comprati, e che la televisione eccita la vanità. In economia Non sapeva dove stesse di casa il libero mercato, né la libera concorrenza. L'etica della vita pubblica gli era aliena. Era saggio? Difficile dirlo. Certo, dei barlumi di realismo li aveva. Una volta regalò ai suoi fedeli il condensato del buon senso brianzolo: «Chi si fa lo yacht e poi si lamenta dei costi di manutenzione, forse non doveva farsi lo yacht». Aveva una visione? Questo sì. Una volta disse: «Vorrei cambiare nome al partito, lo vorrei chiamare Forza Gnocca». Ed effettivamente stava lavorando a quel progetto, che uno dei suoi più stimati intellettuali, Paolo Guzzanti, chiamò «mignottocrazia ». E però fu anche il primo, sfidando i bacchettoni, a far entrare nelle stanze del potere una minorenne extracomunitaria. O forse era un pazzo?
Le opinioni divergono. Gli psicanalisti vedono in lui una patologia narcisistica (l'harem, la tomba modello Tutankamen, il continuo maquillage), La moglie ne denunciò una sorta di satiriasi (malattia di cui soffriva anche John Kennedy); Altri ricordano le paure che ha dovuto attraversare: di essere sequestrato, ucciso, di avere il figlio rapito, di essere arrestato, di essere spogliato della roba. Ma, certo, chiunque voglia cominciare a lavorare sul suo epitaffio, deve riconoscere che l'uomo ha plasmato l'Italia. Si presentò come un buon imprenditore, ma non lo era. Era un palazzinaro molto brillante, versato nelle pubbliche relazioni, finanziato da capitali sporchissimi, che si era fatto strada corrompendo funzionari pubblici. La sua televisione commerciale aveva generato un grande cash flow e una spericolata finanza, addirittura più moderna di quella di Michele Sindona, in cui, tra ricerca di sempre nuovi capitali per coprire i buchi e finanziare la corruzione, lo sbocco politico appariva segnato. Berlusconi non aveva altra possibilità di farla franca se non conquistando il potere.
E lo fece, con poca o nulla opposizione. La sinistra ne fu impaurita e affascinata. Nella gestione della cosa politica portò gli stessi criteri che aveva avuto come imprenditore, favorendo la corruzione, la falsificazione dei bilanci, l'evasione, e cercando di distruggere la concorrenza. Raro caso di un tycoon televisivo incapace di innovarsi, di un padrone di un gioiello editoriale trascinato in perdita, di un banchiere costretto a cedere le sue quote per mancanza di onorabilità, Berlusconi ha portato il tocco di «uomo del fare» anche nella gestione della crisi industriale del Paese (l'Italia ha perso in vent'anni un quarto della sua produzione industriale e il treno della trasformazione in economia digitale); Nelle opere pubbliche, ha aumentato lo spreco, persino nella Protezione civile che ne era immune; ha ridicolizzato il terremoto dell'Aquila; si è fatto difensore di un'italianità ridicola, quando non losca. A un certo punto, era Lavitola a trattare i grandi affari pubblici. Ma non era fesso, il Berlusconi. Non toccò le pensioni. Non toccò i diritti dei sindacati e l'articolo 18. Sempre contrario all'Imu, sia sulla seconda, ma anche sulla prima casa (qui davvero capì cosa unisce il popolo italiano). Non aveva — nel pieno della sua beata satiriasi — nessuna coscienza dei conti pubblici. E pur di soddisfare la sua ricchezza personale stava allegramente portando l'Italia alla bancarotta con la prospettiva di un default, fino a quando (per fortuna), un vero complotto di poteri forti — l'Europa di Merkel e Sarkozy, gli Usa di Obama e da noi Napolitano e Monti, ma non certo «il popolo italiano» — trovò la forza di mandarlo al diavolo. Di qui l'inizio della fine. di e. deaglio


Spero davvero sia l'ultimo atto. Perchè i danni arrecati da quest'uomo al paese sono di proporzioni bibliche. Non fosse altro che per vent'anni il paese invece di crescere si è dilaniato per la sorte di un uomo solo e per i suoi esclusivi interessi. Che se anche non fossero stati interessi mafioso-delinquenziali, sarebbe comunque una tragedia per una democrazia, per un paese, essere impiccato al destino di un solo uomo.
La trsitezza è che ce ne siamo liberati grazie all'Europa e non grazie ad una presa di coscienza degli Italiani. Cosi come fu per il fascismo da cui ci liberarono i mericani. Questo paese non cresce mai, resta estraneo alla democrazia che non è mai un uomo solo al potere. Ed il desiderio dell'uomo forte, del pifferaio magico che risolva tutto senza pagare dazio, ritorna sempre. Da Mussolini a Berlusconi a Grillo a Renzi. (by admin)








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