News: CHEF RUBIO. KM 0?? FAVOLETTE
(Categoria: ITALIA)
Inviato da ferocibus70
lunedì 12 novembre 2018 - 17:23:27


 
 
Chef Rubio non è uno che le manda a dire. Classe 1983, ex rugbista professionista e diplomato all’ALMA–la Scuola Internazionale di Cucina Italiana–Rubio è un vero e proprio ‘antichef’, un cuoco indipendente e non convenzionale, che per scelta non possiede un suo ristorante, ma che viaggia costantemente alla scoperta di saperi e sapori. Volto televisivo di programmi di successo (tra cui Unti e BisuntiÈ uno sporco lavoroCamionisti in trattoria, tutti su DMAX), Rubio è stato anche Chef Ufficiale di Casa Italia alle Paralimpiadi di Rio nel 2016; ambassador della campagna per i diritti umani Write for Rights di Amnesty International e volto della campagna raccolta 5×1000–sempre per Amnesty International–nel 2017 e 2018; promotore, insieme a Erri De Luca, dell’iniziativa ‘Pasto Sospeso’, lanciata a Roma nel cuore della Garbatella; sostenitore della campagna lanciata dal WWF #IoStoConLaNatura, in difesa dei gorilla e della riserva di Dzanga-Sangha nella Repubblica Centrafricana. Estremo, polarizzante, sovente di non facile ‘digestione’, Chef Rubio non fa sconti a nessuno
da globalist



 
Che si tratti dei locali della movida milanese, rei di sprecare cibo per coloro che «vanno ad aperitivare senza senso in giro»; di ipocrisie di stampo vegano («Mi fanno ridere gli ultra-veg attentissimi all’ambiente che si distraggono sul fatto che gli avocado vengono quasi tutti dal Cile o da Israele. Quindi sono inquinanti»); dei cooking show («È una roba che non c’entra nulla con la cucina»); dei giudici dei suddetti talent («Che senso ha parlare di cucina a chilometro zero e poi fare la pubblicità del gorgonzola dolce o delle patatine?»). In un panorama di rinnovato interesse per l’universo food, in cui ci si bea di termini quali ‘filiera corta’, ‘biologico’, ‘biodinamico’, ‘vini naturali’ e compagnia cantante, Rubio riporta tutti con i piedi per terra, sottolineando l’utilizzo di facciata che spesso viene fatto di tali espressioni, volte solo a non parlare di un aspetto ben più grave che pesa sulla catena alimentare e sulla qualità del cibo: il riscaldamento globale. Pochi lo vogliono ammettere, ma l’attività antropica e le emissioni di gas serra sono tra le principali cause di fenomeni quali siccità, acidificazione, innalzamento dei mari, desertificazione, progressivo impoverimento del suolo e uragani atlantici, alcuni dei volti del climate change. Che nonostante venga negato da Donald Trump – ci impone una profonda riflessione di fronte a numeri allarmanti. Secondo i dati Fao del 2015, il settore agricolo è responsabile del 25% circa delle emissioni totali, a fronte del 37% di quello energetico, del 14% dei trasporti e dell’11% dell’industria. Nell’agroalimentare, la fonte principale di emissioni di gas serra arriva dall’allevamento zootecnico (ergo, dagli allevamenti intensivi), che da solo produce il 40% delle emissioni dell’intero settore. A questa fonte segue quella della distribuzione di fertilizzanti sintetici: 13% delle emissioni agricole. I primi a pagare le conseguenze del riscaldamento globale sono contadini, pastori e comunità indigene costrette a migrare, o–nel migliore dei casi–a doversi adattare al nuovo scenario, imparando nuove tecniche di produzione e di sopravvivenza. Gli sprechi alimentari giocano purtroppo un ruolo chiave: ogni europeo spreca circa 179 kg di cibo ogni anno. E il cibo buttato consuma una quantità d’acqua pari al flusso del fiume Volga, utilizzando inutilmente 1,4 miliardi di ettari di terreno, pari a quasi il 30% della superficie agricola mondiale. Tradotto in emissioni? Lo spreco alimentare è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. È per la sua sensibilità e il suo impegno concreto nei confronti di questi temi che, nel 2018, Chef Rubio viene contattato da Ifad, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo delle Nazioni Unite, per aderire a Recipes for change (‘Ricette per il cambiamento’), un programma di supporto rivolto alle realtà rurali e ai piccoli produttori agricoli delle zone più povere del pianeta, maggiormente colpite dai cambiamenti climatici. «Le lunghe braccia di Ifad arrivano ovunque ci sia un governo capace di dare all’associazione l’opportunità di mettere in pratica i suoi progetti», spiega Rubio, «sono rimasto positivamente colpito dal fatto che si lavorasse in maniera diretta con le persone del territorio: gli intermediari sono pochi, e si tratta in genere di individui scolarizzati, colti e sempre del luogo, che fungono da tramite tra Ifad stessa e gli agricoltori». Lo scorso luglio lo chef parte alla volta del Guatemala, dove visita i villaggi di Lankìn e San Juan Chamelco, incontrando le popolazioni indigene dei Q’eqchì e lavorando nei campi di mais, peperoncino, cacao, fagioli, cavoli, cardamomo e caffè. Inoltre, cucina insieme a loro i piatti della tradizione Maya e affianca le donne nella vendita dei prodotti al mercato. Durante il viaggio, condivide e scambia le sue conoscenze con quelle delle popolazioni locali e dei tecnici del Programa de Desarrollo Rural para la Región del Norte – Prodenorte, un piano di protezione e sostenibilità ambientale che IFAD affianca da un paio d’anni e che sostiene con corsi di formazione gratuita rivolti a giovani e donne per la conservazione e commercializzazione di prodotti e ricette dichiarate patrimonio culturale guatemalteco. «Ho visto all’opera agronomi, biologi e scienziati che non hanno mai perso il contatto con la terra e sono riusciti a mantenere un filo diretto con la comunità Maya, una delle poche in grado di mantenere la sua lingua natia e le sue usanze nel corso dei secoli. È grazie a queste persone che lavorano ‘sul campo’ e non delegano o fanno politica nascondendosi dietro alle scrivanie che ho avuto la possibilità entrare in contatto con una cultura antichissima, uno dei ricordi più preziosi che porterò per sempre con me». Rubio fornisce un’efficace istantanea della situazione del Paese centroamericano: «Nella capitale ho trovato una forte instabilità: alcune potenze mondiali, finanziando segretamente le sommosse e tentando di inserire armi e altri prodotti nel territorio, lucrano sulle sorti del Paese. Nella parte rurale si nota invece la diaspora dei contadini dovuta al cambiamento climatico, che è anche una nostra responsabilità: gli abitanti delle campagne sono costretti ad abbandonare le loro terre per un lavoro di fortuna in città, perdendo così un inestimabile tesoro. Gli agronomi, biologi e scienziati di IFAD educano le popolazioni abituate a un determinato tipo di coltura riguardo al climate change, mostrando la possibilità di invertire la rotta per adattarsi ai nuovi scenari e migliorare la loro condizione. È un inizio: non si tratta certamente di una situazione idilliaca, però se l’adesione da parte delle piccole comunità dovesse continuare ci sarebbe un filo di speranza». Vero è che, purtroppo, non tutti gli stati diano l’opportunità a IFAD di avere a disposizione un fondo da girare agli agricoltori, perché «questo potrebbe indispettire le grandi corporazioni che già avevano adocchiato quei terreni per altri scopi, non certo per la preservazione delle tradizioni rurali». Sabato 27 ottobre, in occasione del Festival della Scienza a Genova–il cui tema era appunto ‘Cambiamenti’– è stato presentato in anteprima mondiale il documentario prodotto da IFAD durante il soggiorno di Chef Rubio in Guatemala. La sua emozione è palpabile, così come l’interesse dei tanti partecipanti che hanno riempito la Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale, dove si teneva l’incontro con Rubio ‘Cibo e Climate Change: Ricette per il Cambiamento’. C’è da chiedersi perché, in questo ‘momento d’oro’ della ristorazione, nessuno (o quasi) oltre a lui si esponga denunciando i comportamenti quotidiani che finiscono per favorire le problematiche legate al global warming. «Non mi stupisce che chi potrebbe non prenda posizione in merito: se lo facesse, agirebbe soltanto per un tornaconto personale, come non di rado accade. Io non mi vergogno di ciò che penso, e spero di ispirare altri a fare altrettanto». Una ricetta magica non esiste. Però, partendo dal basso, chiunque ha il dovere (e il potere) di non rimanere con le mani in mano e di adoperarsi. «Il punto di partenza è la conoscenza e la cultura: occorre leggere, studiare, documentarsi, approfondire, confutare, senza mai accontentarsi della prima notizia che passa sotto agli occhi. L’obiettivo è alzare la propria linea di critica, che è imprescindibile da un’ottima preparazione rispetto alla materia. Solo successivamente si può attuare ciò che si è imparato, nel tentativo di essere meno impattanti in ogni piccolo gesto. Il problema è che ci si mette la coscienza a posto con poco, magari con un unico passo, poi si vira l’attenzione verso qualcos’altro e si abbandona il progetto. Risultando paradossalmente più dannosi». Il primo step non può trascurare la riappropriazione del concetto di stagionalità: «dobbiamo chiederci ‘Perché trovo le fragole a dicembre quando invece non dovrebbero esserci?’. Se non lo facciamo, assecondiamo il flow della globalizzazione che ci rende disponibile ogni cosa subito. È un dovere delle famiglie formare i propri figli e abituarli a porsi delle domande sin da quando sono piccoli, altrimenti non usciremo mai da questo circolo vizioso e continueremo a dare per scontata la nostra terra». Lo chef cita inoltre libri Cotto di Michael Pollan; Il selfie del mondo di Marco D’Eramo; I segreti della pentola di Hervé This) e documentari ( Jiro Dreams of Sushi di David Gelb e Baraka di Ron Fricke) che l’hanno portato ad approfondire le sue posizioni e che–idealmente–potrebbero avere lo stesso impatto su un pubblico interessato ad andare oltre la superficie dei fatti. Rubio combatte ormai da anni una battaglia contro la falsità e la doppiezza delle istituzioni e della stampa: «Coldiretti potrebbe fare qualsiasi cosa, ma alla fine – quando al suo interno deve rapportarsi con alti vertici – assume dinamiche di stampo mafioso. Tutto ciò che è ‘bello’ ha una controparte negativa di cui non si parla per ragioni di comodo. I professionisti che lavorano nel settore non possono continuare ad abbindolare le persone raccontando favolette come ‘chilometro zero’, ‘filiera corta’ o ‘artigianato’, quando ci sono dei colossi che fagocitano i piccoli artigiani e i piccoli imprenditori, li masticano e li sputano, per poi passare al prossimo. Si tratta di un sistema di facciata che rischia di compromettere il valore di un progetto che magari in silenzio si era fatto le ossa e pian piano si stava rafforzando». La consapevolezza passa per una corretta sensibilizzazione, che – secondo Rubio – dovrebbe essere demandata alle scuole, alle famiglie, alla cultura, all’istruzione e a quei (rari) giornalisti che non si limitano a «fare il compitino dato loro dalle redazioni, ma che cercano la notizia, l’approfondiscono e si impegnano affinché la verità venga a galla. Se la linea editoriale è però schiacciata dal denaro che finanzia determinate testate, è praticamente impossibile che un caporedattore mandi avanti la pubblicazione di un articolo ‘sconveniente’». Nelle parole di Chef Rubio riecheggiano molti dei valori alla base del pensiero di Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia da sempre in prima linea nel divulgare e combattere le conseguenze che la cultura del consumo sfrenato sta avendo sul nostro pianeta. E sebbene il cuoco frascatano sia determinato con il suo impegno – «l’ho sempre fatto a titolo personale e per interesse individuale, poi da cinque anni, con l’arrivo della popolarità, ho continuato a diffondere questi messaggi anche a livello pubblico»–non nasconde il suo scetticismo. «Tirando le somme posso dire che sono pochissime le persone che hanno recepito i messaggi come stimolo, che si sono fatte domande e hanno deciso di darsi da fare. La maggior parte ha preferito zappare sulle tastiere dei computer e seminare odio, senza coltivare alcuno spirito critico. Senza mai mettere in discussione il sistema». La speranza è che sia ancora troppo presto per permettere alla cultura del menefreghismo e della frivolezza di averla vinta. «Finché ne avrò la possibilità, conclude Rubio, «continuerò a farmi una cultura, a diffonderla e a condividerla: sono convinto che lasciare bambini migliori al nostro pianeta, e non viceversa, sia la ricetta più efficace per il cambiamento».







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