Ne dubita incrociando il percorso, sempre frontale e a volto scoperto dei due giovani terroristi di destra di allora, con l’ultima sentenza di condanna, tutta induttiva e costruita su connessioni e analogie, testimonianze strane e sospette e nessun fatto, nessun riscontro materiale |
Avrei dovuto partecipare - due giorni fa - alla presentazione del libro di Andrea Colombo «La storia nera. La verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti». Non ho potuto farlo perché lo stesso giorno, alla stessa ora, si votava in Senato. Avrei detto che Andrea Colombo ha scritto un libro esemplare, dal punto di vista del metodo, e molto importante nella storia tormentata e in parte ancora oscura del terrorismo nero. Il punto cruciale di questo viaggio nella «Storia nera» è la serie contraddittoria di sentenze che, alternativamente, hanno assolto o condannato Mambro e Fioravanti, fino a un processo finale, e a una sentenza di condanna che chiude la lunga storia e diventa definitiva dal punto di vista giuridico. Se torniamo ai fatti il tragico tema, come tutti ricordano, è uno dei più vili e ripugnanti episodi del terrorismo neo-fascista che ha insanguinato l’Italia: la strage alla stazione di Bologna. Su questo giornale, alcuni giorni fa, Fulvio Abbate, il cui nome e la cui vita lo mettono al riparo da ogni dubbio, ha scritto che anche lui dubita del coinvolgimento di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti in questo tragico episodio. Ne dubita incrociando il percorso, sempre frontale e a volto scoperto dei due giovani terroristi di destra di allora, con l’ultima sentenza di condanna, tutta induttiva e costruita su connessioni e analogie, testimonianze strane e sospette e nessun fatto, nessun riscontro materiale incontrovertibile. In altre parole, ci dice Abbate, siamo nel cuore nero degli anni di piombo italiano, il più carico di misteri che sono restati misteri. Chi ha deciso l’esecuzione di Aldo Moro? Chi ha fatto che cosa, nel lungo mistero della sua prigionia? A chi rispondeva, da chi aspettava istruzioni colui che ha premuto il grilletto eseguendo una sentenza di morte che voleva soprattutto il silenzio? Il richiamo a un evento tragico come l’uccisione di Moro (opera, in questo caso, del terrorismo di sinistra) è utile per ricordare due aspetti. Il primo è che nessuna discussione sulla prigionia e la morte di Moro - e la zona oscura che circonda l’evento - viene mai interpretata - meno che mai dalla famiglia - come negazione, tradimento o indifferenza verso coloro (familiari, amici, partito, buona parte dell’opinione pubblica italiana) che da quell’evento sono stati, o si sono sentiti, direttamente colpiti. Il secondo è che riconoscere che - nonostante le sentenze e le condanne - a volte ben poco è accertato, ben poco è chiaro, è importante perché molti misteri durano a lungo, ma non per sempre. A patto di non consacrare come la verità assoluta una verità espressa in una sentenza, anzi di considerare quella sentenza tutt’uno col delitto. Chi discute la sentenza, indica dubbi e suggerisce la presenza di zone d’ombra che forse nascondono altro e altri, viene attaccato come se negasse o svilisse la strage o insultasse le vittime. La logica dice che è vero il contrario. L’ansia di poter dare alle vittime tutto il rispetto, l’affetto, l’attenzione che meritano è anche l’ansia di non smettere di interrogarsi. Chi - e che cos’altro - è rimasto impunemente nell’ombra, sicuro di non essere mai più cercato, forse protagonista, anche adesso, di incensurata vita pubblica? Perché quest’ansia dovrebbe offendere i sopravvissuti e i parenti delle vittime da parte di chi non smette di voler sapere? Perché sarebbe più rispettoso non parlare mai più dell’orrendo caso di Bologna visto che invece l’intelligenza del mondo non smette di interrogarsi su vicende altrettanto spaventose? La strage americana di Oklahoma City (il più grave atto di terrorismo prima dell’11 settembre, massacro di americani da parte di americani) è stata attribuita a una sola persona, il soldato McVeight, condannato a morte con una sentenza subito eseguita a cui - per una volta - si è opposta la maggioranza degli americani. Infatti si era capito che nessuno avrebbe potuto ordire ed eseguire da solo (come iniziativa, come preparazione, come esecuzione) quel tremendo progetto. Il silenzio di McVeight nascondeva forse una pericolosa e misteriosa destra religiosa americana, la stessa che uccideva a uno a uno, negli anni Novanta, i medici abortisti. Almeno trenta libri e saggi sono stati scritti per discutere la strana rapidità del processo e della condanna a morte di McVeight. Nessuno ha pensato a una offesa delle 168 vittime. Al contrario, vi si leggeva una determinazione a sapere altro e di più, e a non dimenticare. Ricordate l’assassinio di Martin Luther King sul balcone del motel Lorraine di Memphis la sera del 4 aprile 1968? Mentre tutta la polizia e l’Fbi americane cercavano il misterioso James Earl Ray, a me è toccato (d’accordo con Coretta King e con i dirigenti del movimento per i diritti civili) di investigare, con la mia troupe televisiva e un esperto di traiettorie di proiettili, su un altro percorso che è diventato un documentario negli Usa e in Italia. Quel documentario dimostrava da quale finestra e di fronte a quali persone (i degenti di un ospizio per anziani molti dei quali però ricordavano bene) l’assassino aveva sparato. Nell’inchiesta ufficiale James Earl Ray è stato arrestato, processato, condannato. Una volta diventati adulti, i figli di Martin Luther King si sono battuti per un nuovo processo e la liberazione di Ray, alla cui innocenza credevano. Ray, disperato e solitario «drifter» (vagabondo) e piccolo fuorilegge della malavita americana, era servito probabilmente a coprire una destra armata nemica dei diritti civili che aveva già colpito e avrebbe colpito ancora. Ma James Earl Ray è morto in prigione, difeso solo dalla famiglia della vittima. Nel suo libro Andrea Colombo questo dice. La rete di testimonianze, voci e rivelazioni su cui si basa la sentenza Mambro-Fioravanti si presta a drammatici dubbi, mostra vistose sconnessioni, punta a due giovani persone facili da bruciare. Chiederci se c’è altro - ben altro - che è restato nascosto per sempre da una vistosa organizzazione delle testimonianze, non è offendere la memoria delle vittime della peggiore strage italiana. Ma - al contrario - restare accanto ai parenti delle vittime, con legittima ansia e senza pace. Per questo non capisco la sgridata di Claudio Nunziata contro Fulvio Abbate sulle pagine di questo giornale, e non capisco le lettere di condanna subito pervenute all’Unità contro lo scrittore come se Abbate avesse detto con impudenza cose inaudite. Coloro che avversano la pena di morte negli Stati Uniti insistono su un dato terribile. Metà delle sentenze dei condannati giustiziati, risulta infondata, difettosa o ingiusta. Non è un attacco alla magistratura. Non dicono che i condannati ingiustamente messi a morte erano esempi di buon comportamento. Dicono, senza scandalo e offesa di nessuno che molte volte qualcuno è innocente persino se ha avuto una vita tutt’altro che esemplare. Niente, in tutto questo, nega solidarietà e sostegno a coloro che hanno patito un immenso dolore. Al contrario. Invece di archiviare per non parlarne più, c’è chi vuole continuare a parlarne. Ricordate che, negli anni Venti, per un lungo periodo gli americani sono stati indotti a credere che Sacco e Vanzetti fossero davvero gli autori di una delittuosa rapina che ha svergognato l’intera comunità italiana. Nessuno ha offeso le vittime di quella rapina di sangue quando si è scoperto che Sacco e Vanzetti non erano i colpevoli di quel delitto. Tutto il turbolento cammino umano è segnato da tragici errori. Cercare di capire se, e come, e perché, quegli errori sono stati commessi, è un modo civile di non essere indifferenti e cerimoniosi e di onorare la giustizia insieme con le vittime, continuando a interrogarci invece di voltare le spalle di Furio Colombo 18 maggio 2007 furiocolombo©unita.it |