News: CIA :OSCURE ALLEANZE
(Categoria: CIA & DROGA)
Inviato da ferocibus70
venerdì 21 novembre 2008 - 21:59:52

La «guerra alle droghe», proclamata da Ronald Reagan all’inizio degli anni Ottanta, per quanto assurda, sembrava giustificarsi alla luce della tragedia del crack, che distruggeva letteralmente interi pezzi delle maggiori città americane, oltre alle vite di chi vi abitava.


La crudeltà delle droghe, fino ad allora riscontrabile negli effetti dell’eroinomania, diventava incontestabile di fronte ai danni distruttivi del crack. In realtà a sponsorizzare il crack era allora la CIA, sotto la direzione dello stesso Reagan. Già si sapeva, fin dallo scandalo dell’Irangate, che la CIA, e più particolarmente la cellula di Oliver North, direttamente connessa alla Casa Bianca, aveva finanziato i ribelli anticomunisti affidando loro una parte del flusso della cocaina che, dalla Colombia, irrigava gli Stati Uniti. Il rapporto della commissione Kerry (1989) non lascia alcun dubbio al riguardo. Nel 1996, Gary Webb pubblicò su un quotidiano della Silicon Valley, il «San José Mercury News», una serie di articoli che riferivano dei risultati di un anno di ricerche: The Dark Alliance. Per portare a termine questa inchiesta, realizzata con la collaborazione del corrispondente del suo giornale in Nicaragua, Webb aveva viaggiato e intervistato molti personaggi, ma si era basato soprattutto sulle carte giudiziarie pubblicate a proposito di affari in corso o recenti. Fu così che si apprese come la CIA proteggesse una rete di trafficanti nicaraguensi che faceva arrivare la cocaina dalla Colombia a South-Central, Los Angeles. Essi rifornivano in modo particolare Freeway Rick, leggendario DEAler che fece fortuna col boom del crack, oggi in prigione con una condanna all’ergastolo. L’ondata di crack era un fenomeno di marketing che aveva lo scopo di smaltire rapidamente grossi quantitativi di coca, destinandola non più ai ricchi, ma ai poveri, un enorme mercato conquistato a passo di carica. Ciò coincide con gli anni in cui Reagan era alle prese con il veto del Congresso usa, che gli proibiva di sovvenzionare i Contras in Nicaragua. E con gli anni della «guerra alle droghe». Da una parte venivano arrestati a tutto spiano – come accade tuttora – i neri e gli ispanici dei ghetti, il più delle volte per infrazioni alle leggi sugli stupefacenti. Dall’altra li si riforniva della roba che avrebbe fatto loro commettere i crimini per cui li si imprigionava! Questo incredibile cinismo merita attenzione. Passiamo la parola a Gary Webb e Michael Levine. Ex poliziotto della «narcotici», Levine è anche testimone a carico nella grande istruttoria informale che il popolo ha aperto contro lo Stato criminale. Sua è la chiusa: «ho passato praticamente tutta la mia vita di adulto all’interno di questo sistema, credendo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Sono arrivato a imparare che questo modo di pensare è quanto di peggio ci possa capitare; è proprio questo modo di pensare che rischia di distruggere le nostre libertà». E lungo il percorso, quante vite distrutte? Gary Webb è stato trovato morto nel febbraio 2006 apparentemente suicidato.

The Dark Alliance
Il 18, 19 e 20 agosto 1996: il «San José Mercury News» pubblica una serie di tre articoli di Gary Webb. Nessun quotidiano nazionale li riprende. Ma le radio locali della comunità nera, sì. Lo splendido sito internet che il «San José Mercury News» dedica a The Dark Alliance, in cui, per la prima volta nella storia del giornalismo, i testi degli articoli vengono pubblicati con le relative fonti, in immagini e sonoro, viene assalito dalle connessioni... fino a un milione al giorno! Bisogna aspettare ottobre perché la stampa reagisca! Il «Washington Post» apre il fuoco per tentare di smentire Gary Webb. Poi è la volta del «New York Times», ma è al «Los Angeles Times» che spetta la pubblicazione del pezzo forte in questa campagna: dal 20 al 22 ottobre, una serie di tre articoli lunghi come quelli di Gary Webb. La denuncia unanime della stampa benpensante induce il caporedattore del «San José Mercury News», Jeremy Ceppo, a ritrattare. In seguito, Gary Webb va in pensione, e pubblica nel 1998, presso le edizioni Seven Stories, il suo libro The Dark Alliance.
Se lo straordinario sito internet The Dark Alliance del «San José Mercury News» è stato chiuso, molti altri siti internet di controinformazione forniscono oggi una documentazione di ottima qualità intorno a questo dossier.

Cocaine Importing Agency Crack the CIA.
 La CIA e le droghe, Narcolonialismo nel xx secolo. Riproduzione delle pagine compromettenti del diario di Oliver North. Una pagina di links sull’argomento, pressoché esaustiva.
Michael Levine, il dissidente che la DEA ha bandito 
Michael Levine ha alle spalle una carriera di venticinque anni come agente infiltrato al servizio di quattro agenzie federali americane nei cinque continenti. Egli è diventato il più noto e aspro fra i critici della Drug Enforcement Administration (DEA). Dal Triangolo d’Oro alle Ande, tutti i suoi sforzi per mettere le mani sui pezzi grossi del traffico sono stati, come ci spiegherà, sabotati dai burocrati della DEA e dalle pressioni della CIA. La storia delle sue operazioni contro la mafia boliviana della cocaina è raccontata dettagliatamente nei suoi libri Deep Cover (Delacorte, 1990) e The Big White Lie. Il suo ultimo libro, Triangle of death (Dell, 1996), scritto in collaborazione con la moglie, Laura Kavanau, è un giallo basato sulla sua esperienza professionale. È anche ospite fisso della trasmissione radiofonica settimanale Expert Witness, in onda sulla radio newyorkese wbai-fm, nei cui studi è stata realizzata questa intervista.
«High Times» – Perché un ex agente della DEA interviene in una radio?

M. Levine – Perché si assiste alla totale abdicazione dei media, che non svolgono più il loro ruolo, per quanto minimo, di controllo. Io ero il funzionario americano di grado più elevato nel cono Sud. Ebbene, voi non potete immaginare peggiori tradimenti verso il popolo americano di quelli cui mi è toccato di assistere! E voglio parlare del sostegno fornito dalla CIA e dai suoi collaboratori alla presa del potere in Bolivia da parte di narcotrafficanti e ricercati nazisti.
Ci vuole parlare del 1980 quando, dopo il «colpo di Stato della cocaina», l’economia sudamericana della droga è diventata un’industria di grandi proporzioni...
È esatto. Ciò che voglio dire è che tutto si svolgeva sotto gli occhi dei mass media. «Newsweek» aveva pubblicato un articolo sulla situazione boliviana talmente lontano dalla realtà, che ho fatto la più grande stupidata della mia vita inviando alla redazione una lettera con intestazione dell’ambasciata in cui dicevo: «Voi siete totalmente inseriti dentro il programma, la verità è che la CIA ci ha tradito».
 
Dov’è stato l’errore?
I giornalisti non mi hanno mai chiamato e io mi sono ritrovato con una inchiesta interna sul groppone. E chi si è reso conto che qualcosa andava veramente storto nella copertura degli avvenimenti in Bolivia? Sentite questa! «High Times», articolo di Dean Latimer (agosto 1981). Ve lo riassumo. Diceva, per sommi capi: «Il governo ha lavorato di lima fin nei dettagli di questo colpo di Stato, e non cerca nemmeno di metterlo al suo attivo. C’è qualcosa che non torna».
E ciò si riferisce a...
All’affaire Roberto Suarez, che mi hanno sabotato in ogni modo. E «High Times» è stato il solo organo di stampa ad aver fiutato la pista giusta. Se avessi scritto a loro invece che a «Newsweek», avrebbero svelato il caso.

Riprendiamo dall’inizio. Com’è entrato nella DEA?
Quand’ero nella polizia militare, per una storia del cazzo, un giorno un tipo mi ha piantato una pistola nello stomaco e ha premuto il grilletto. Il colpo non è partito. Questa vicenda ha provocato in me un profondo cambiamento. Ho voluto vivere a cento all’ora. Pensavo allora che avrei potuto diventare il James Bond degli agenti infiltrati. Ero bravo nelle infiltrazioni. Parlavo correntemente lo spagnolo. Conoscevo la strada. Da giovane ero stato un teppista, arrestato due volte prima dei sedici anni. Ora, ero pagato per andare a zonzo nel Bronx come da ragazzino. Nel 1965, ero uno dei pochi, insieme a quelli del fisco, che potevano comprare dei numeri della bolita, la lotteria clandestina ispanica. Potevo spacciarmi per chi volevo. Facevo tutto questo senza un vero scopo, giusto come un gioco che poteva offrirmi una dose di brivido. Fino al momento in cui scopro che proprio mio fratello, David, era scimmiato di eroina.
Di colpo ho creduto di vedere il puzzle nelle sue concatenazioni. Io ci credevo, sapete, al discorso ufficiale. Per me, lo spacciatore di droga era davvero il peggio del peggio. E mi sono messo in testa che se m’ero salvato era solo per uno scopo: entrare nell’antidroga.

Lei era dunque nella DEA fin dalla creazione dell’agenzia?
Sì. Nel 1970 sono stato trasferito dall’ufficio ATF (1) alla brigata di investigazione sulle droghe pesanti alle dogane. Ed è là che per la prima volta ho avuto a che fare con la CIA. È stato in occasione del processo Governo degli Stati Uniti vs. Liang-Sae Tiw et al. Il caso iniziò il 4 luglio 1971, con un arresto all’aeroporto Kennedy di New York. Il tipo arrestato è diventato un mio informatore. Faceva venire l’eroina da Bangkok, in Thailandia. Abbiamo messo le mani sui suoi associati, che organizzavano la distribuzione su scala nazionale, in una palude della Florida. E sono andato a infiltrarmi in Thailandia per incontrare il loro contatto a Bangkok. I signori mi adoravano, ci tenevano a portarmi con loro fino a Chiang Mai. Ma le cose cominciano ad andar male. Io non riesco a ricevere i fondi per l’operazione: seguo questo tipo della mafia, che mente come un cavadenti, e loro cominciano seriamente a pensare di sopprimermi. Da parte mia, inizio a dare in escandescenze con i miei superiori. Risultato, a mezzanotte mi portano all’ambasciata degli Stati Uniti. Vi incontro il capo delle dogane americane, Joey Jenkins, e un tipo calvo in camicia guayabera che mi dice: «Lei non andrà a Chiang Mai». Dopo che se n’è andato, Jenkins si gira verso di me e mi mormora all’orecchio: «Quel tipo è della CIA». Allora, eseguendo gli ordini, arresto quello con cui facevo affari e chiudo il caso. Ho perfino ricevuto una medaglia speciale dal Dipartimento del Tesoro. Ma non sono riuscito né ad andare a Chiang Mai né ad arrestare i fornitori. Parecchi anni dopo, mentre lavoravo per conto della DEA, che aveva in carico le fazioni tribali del Triangolo d’Oro, ne ho di nuovo sentito parlare. Era proprio questa rete, che mi si era impedito d’intaccare, a introdurre l’eroina negli Stati Uniti nascondendola dentro i cadaveri dei soldati rimpatriati. Ma all’epoca, tutto ciò che sapevo è che mi si impediva di realizzare il più grosso sequestro di eroina di tutti i tempi.
Nel 1973 sono stato incorporato nella DEA, subito dopo la sua istituzione. Quando mi sono di nuovo trovato in contrasto con la CIA, ero in Sudamerica. Ed è là che ho veramente flippato correndo rischi enormi.

Nel frattempo suo fratello si è suicidato. Sì, nel 1977. Lasciando scritto: «Non posso più sopportare le droghe». Aveva 34 anni. Il mio desiderio di azione si è decuplicato, del tipo: «Gliela faccio vedere io a quei figli di puttana».

In Sudamerica il suo bersaglio era Roberto Suarez, il «re della cocaina».
Sì, anche lui mi adorava. Io gli ho parlato solo al telefono, ma lui mi dava del «comandante», lo stesso titolo attribuito a lui. Fu arrestato anni dopo, ma la mia operazione era stata sabotata. La nostra finta famiglia mafiosa si era installata in una casa a Miami. Si fingeva di avere un pacco di grana, e non si aveva un soldo. Teatrino. Il nostro budget per l’intera operazione ammontava a 2500 dollari, subito finiti.

In un rapporto della DEA (Operation Hun: A Chronology) sta scritto che esistevano prove sufficienti per incolpare l’intero governo boliviano. E la CIA ha bloccato tutto perché metteva in pericolo i loro programmi. Nel rapporto, si legge: «un’altra agenzia», il solito eufemismo.
Io mi spacciavo per un compare mezzo siciliano mezzo portoricano, Miguel Luis Garcia, e loro hanno abboccato. Pagai 9 milioni di dollari a José Gasser e Alfredo «Gutucci» Gutierrez attraverso una banca di Miami, mentre i nostri aerei sorvolavano la giungla boliviana, e i nostri ragazzi misero le mani su una mezza tonnellata di pasta di coca. Regolai i dettagli del contratto con Roberto Suarez dopo Buenos Aires e saltai su un aereo per Miami. Gli si misero sotto gli occhi i 9 milioni in contante. Il tutto non durò più di due ore.
Li si arrestò, ma vennero immediatamente rilasciati. Tutte le accuse contro Gasser furono respinte da Michael Sullivan, giudice federale di Miami. Gutierrez, rilasciato sotto cauzione, riparò in Bolivia e ordinò di uccidermi. Sullivan sosteneva che non si poteva vincere. Stronzate. Gli dissi: «Spesso abbiamo in mano molto meno contro la maggior parte degli americani attualmente in prigione». Cominciai a definirla «un’ostruzione da parte del Dipartimento della Giustizia». L’operazione Hun si chiuse con la mia messa sotto inchiesta interna e l’espulsione dall’Argentina. A Buenos Aires subii un attentato da parte di gente al servizio della CIA, degli assassini professionisti argentini. Assassini di massa. Boia a ripetizione. Chiamateli come volete.

Quelli dei desaparecidos?
Sì. Mi è difficile dirvi quanto li odio quei signori là. Ma io ero un miracolato, non un nazi.

Così, già prima di sostenere la Contra in Nicaragua, la CIA proteggeva i cartelli sudamericani?
Ho cercato di appurarlo. Ho scoperto che il padre di José Gasser era stato uno dei fondatori della Lega anticomunista mondiale. E che era in contatto con la CIA dall’inizio degli anni Sessanta. Per il mio primo colpo portato a segno in Bolivia, che «Penthouse» ha definito la più grande truffa di tutti i tempi, avevamo bisogno dell’aiuto del governo boliviano. A quell’epoca, nel 1980, era al potere Lidia Gueiler. Era alla testa di un governo liberale, proibizionista convinta, e ci ha aiutato. Tanto che i trafficanti sono poi andati a raccontare ai loro corrispondenti della CIA che Lidia Gueiler era una militante di sinistra. Ecco perché il governo degli Stati Uniti ha sostenuto la «rivoluzione» in Bolivia: facendo venire degli argentini, sbloccando fondi segreti ecc. Tutti sanno che i trafficanti di droga sono capitalisti. Sono sempre anticomunisti! [Risate].

Chi finì in prigione, dopo l’operazione Hun?
M.L.: Il pesce più grosso, «Papo» Mejia, uno degli assassini più dementi mai nati in Colombia. E quella bellissima donna, Sonia Atala, la «Regina della cocaina» boliviana. Vendeva più cocaina lei di qualunque altro essere vivente. Disponeva di truppe scelte, e un potere di morte su chiunque, dappertutto e sempre. Nel 1980, di fatto, salì al potere. Nel 1982 rimasi completamente paralizzato dalle inchieste e dagli attentati contro di me. Mi trasferirono al Quartier Generale della DEA. Venni pedinato, il mio telefono fu messo sotto controllo. Tappa successiva, mi domandarono se ero pronto ad accettare una missione di infiltrazione. Avrei fatto patti col diavolo pur di riuscire ad allontanarmi dal Quartier Generale della DEA. Domandai: «Di che affare si tratta?», e mi risposero: «Quella donna, Sonia Atala. Vogliamo che tu ci vada a vivere insieme». Aveva deciso di collaborare. Il suo potere era diventato tale che il «ministro della cocaina» della Bolivia, Luis Arce Gomez (cugino di Roberto Suarez), l’aveva presa di mira e cercava di toglierla di mezzo. Dopo aver incassato due milioni di dollari da Papo Mejia, i suoi fornitori rifiutarono di effettuare la consegna. Papo le disse: «O mi restituisci i soldi, o ti uccido tutta la famiglia». Adesso erano i colombiani, oltre ai boliviani, a volerle fare la pelle. Lei andò direttamente alla DEA. E si pensò a me come suo compagno.
C’installammo a Tucson, in Arizona, recitando la parte dell’uomo e la sua amichetta. Avevamo intenzione di cominciare ad acquistare, e quindi di mettere le mani su ciascuno dei colombiani e dei boliviani che avessero voluto fare affari con noi. I miei dossier contro Roberto Suarez, Arce Gomez, Klaus Barbie e tutta la cricca s’ispessirono. Il governo cominciò a fare il difficile quando si trattò di scegliere chi avrebbe dovuto essere incolpato. Ma almeno Papo ce l’abbiamo, ora sconta i suoi trentacinque anni. Sonia è rientrata in Bolivia e ha recuperato tutti i suoi beni.

Cosa intende per «truppe scelte naziste» a sua disposizione?
Intendo dire mercenari europei addestrati da Klaus Barbie («il macellaio di Lione», ufficiale della Gestapo ricercato). La sua villa a Santa Cruz, in Bolivia, era soprannominata la «casa della tortura». Aveva spesse mura e tutto l’equipaggiamento necessario.

E lei abitava con quella donna a Tucson?
Sì. Allora lei vendeva droga. Si è fatta pizzicare mentre vendeva a due infiltrati della DEA, due agenti del Texas, che sono stati obbligati a non arrestarla. È tutto scritto nero su bianco in The Big White Lie. I nomi, le date, i luoghi e i momenti.è

Ci ha fatto l’amore?
No. Potevano sottopormi in ogni istante alla macchina della verità..

L’operazione Trifecta fu il vostro tentativo successivo per far cadere la mafia colombiana?
Esatto. Il nostro obiettivo era la Corporacion, organizzazione nata dalla rivoluzione. Noi avevamo anche preso di mira l’intero governo messicano, inclusa l’équipe del futuro presidente Carlos Salinas. E, una volta di più, dovevamo renderci conto che il Dipartimento di Giustizia faceva tutto il possibile per insabbiare la faccenda. Fino a far sì che il ministro della Giustizia, Edwin Meese chiamasse il suo collega messicano per avvertirlo!

Ancora una volta, perché?
Il futuro presidente, Salinas, assicurava ai nostri politici l’appoggio al NAFTA (2). Nello stesso tempo, i suoi subordinati raccontavano a me, «Luis Miguel Garcia», padrino di mafia mezzo siciliano, che una volta al potere Salinas, il Messico si sarebbe spalancato al traffico.

Ed è andata proprio così. Esattamente! E tutto questo è disponibile in un video. Ma se gli americani avessero saputo del nocciolo della faccenda, niente nafta!

Avete comunque arrestato il colonnello Jorge Carranza, figlio del fondatore del Messico moderno.
Esatto, il figlio di Venustiano Carranza, il George Washington messicano! Stava seduto davanti a me in alta uniforme, e mi assicurava che avrei potuto far cadere il governo. E intanto il video filmava.

E che ne è stato di tutta quella gente? Sono tutti liberi. Carranza è stato assolto in appello. Io ho scritto un memoriale che racconta come il governo abbia fatto di tutto per demolire l’affaire. Se mi si fosse lasciato andare avanti, avrei incontrato i veri padrini della Corporacion, in particolare il ministro della Difesa messicano, Arevalo Guardoqui. Mi era stato combinato un appuntamento con lui, sempre sotto l’occhio della telecamera!

Perché non è successo niente?
Bisogna chiederlo a loro. Io sono andato alla trasmissione di McNeil e Lehrer, e il vero capo della DEA, Terry Burke, si è rifiutato di rispondere in onda alle mie accuse. Ha detto: «Voi capite, questo ragazzo è implicato in un affare commerciale», un riferimento al mio contratto editoriale, probabilmente.

Oggi, Luis Arce Gomez e Roberto Suarez sono entrambi in prigione.
Sì. Arce Gomez negli USA e Roberto Suarez in Bolivia. Se si può chiamare quella una prigione! Vive nel lusso.

Nel suo romanzo, Triangle of Death, molti personaggi sono riconoscibili, li si è già incontrati in altri suoi libri. Il fatto è che non si tratta veramente di immaginazione. Il Triangolo della morte è il vero nome dell’organizzazione creata da un ex capo della Gestapo, Augusto Ricord. Costui è stato condannato a morte in contumacia in Francia. Metteva in atto operazioni in Paraguay col sostegno della CIA. Volete una prova della potenza di quest’organizzazione? Un’inchiesta delle dogane, iniziata con una partita di eroina ordinata dalla mafia italiana al Triangolo della morte, si concluse con incriminazioni in tutto il mondo. Ma il Paraguay si rifiutò fermamente di consegnare Augusto Ricord, finché Nixon non minacciò un’invasione. Allora cedette. La nostra prima reazione fu di farne dono alla Francia. Ma non lo volevano! Ci dissero: «L’avete voi, tenetevelo!». Incriminato negli USA e condannato a una pena detentiva, nel giro di due anni è stato rilasciato. È rientrato in Paraguay ed è morto in libertà.

Avete dunque le prove di tutto, perché allora farne un romanzo?
Nessuno legge altro. La gente è persuasa che le storie narrate da Tom Clancy siano vere. Ho visto gente piangere alla rappresentazione teatrale di Clear and Present Danger. Io mi trattenevo per non urlare: «È una menzogna, è tutta propaganda!» ma la gente ci crede. Allora abbiamo deciso di scrivere un thriller che mettesse in scena la vera CIA, perché adesso so che la gente avrà più paura di questo che di tutti i documentari del mondo!

Suo figlio Keith era nella polizia di New York. È stato ucciso in servizio. Il 28 dicembre 1991. Stava cercando di impedire un furto. L’uomo che ha ucciso mio figlio era uno scimmiato di crack che aveva già ucciso altri due uomini, imprigionato due volte, e due volte rilasciato.

Di recente lei ha pubblicamente proposto al governo della Costa Rica di arrestare Oliver North perché risponda alle accuse di traffico di droga davanti alla giustizia di quel Paese?
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che i nostri agenti potevano intervenire in altri Paesi per arrestare persone che avessero infranto le nostre leggi. Ebbene, Oscar Arias, premio Nobel e presidente costaricano, ha proibito a vita l’ingresso nel suo Paese a Oliver North, per associazione a delinquere allo scopo di far transitare dal Costa Rica la droga destinata agli Stati Uniti! Io ho portato questa logica fino in fondo: visto che gli USA avevano legalizzato arresti di questo tipo, ch’io avevo già praticato per conto della DEA, sarei stato felice di farne approfittare il Costa Rica!
E volevo soprattutto esser chiaro su un punto: ho passato praticamente tutta la mia vita di adulto all’interno di questo sistema, credendo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Ho imparato poi che questo modo di pensare è quanto di peggio ci possa capitare; è proprio questo modo di pensare che rischia di distruggere le nostre libertà.

tratto da :   ecn

Note
(1) Bureau for Alcohol, Tobacco and Firearms: un corpo di polizia specializzato in alcol, tabacco e armi da fuoco.
(2) Accordo di libero scambio nordamericano, comprendente Stati Uniti, Canada e Messico. [NdT] L’intervista a Michael Levine appare per gentile concessione della rivista «High Times».



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