[…] "Ogni giorno, soprattutto da cent'anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un'antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d'amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell'antilingua. Caratteristica principale dell'antilingua è quello che definirei il "terrore semantico", cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato […]. Nell'antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente […] Chi parla l'antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: "io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso". La motivazione psicologica dell'antilingua è la mancanza d'un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l'odio per se stessi. La lingua invece vive solo d'un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d'una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l'antilingua - l'italiano di chi non sa dire "ho fatto" ma deve dire "ho effettuato" - la lingua viene uccisa."
Italo Calvino, "L'antilingua", in: Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1995, pp. 149-154 (prima pubblicazione su "Il Giorno", 3 febbraio 1965)
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